Era un artista controcorrente, innovativo, visionario, mai retorico, pieno di inventiva. La sua morte causa una perdita crudele per il mondo del teatro lirico.
E' mancato a Londra il celebre regista inglese Graham Vick, ennesima vittima del Covid 19, morbo cui ha ceduto dopo un paio di settimane di inutili cure intensive. Era da poco rientrato a Londra con l'intento di vaccinarsi, dopo una vacanza a Creta con il compagno Ron Howell – noto coreografo - ma il male l'ha colpito per primo.
Era passato anche per Bologna, dove al Comunale è in questi giorni in scena la sua Bohème che vinse il Premio Abbiati 2018. A fine settembre doveva curare la nuova regia de Un ballo in maschera al Festival Verdi di Parma, ambito dove con un discusso Stiffelio – il pubblico in piedi, mischiato agli interpreti - s'era già guadagnato l'anno prima un altro Premio Abbiati.
Era un artista controcorrente, innovativo, visionario, mai retorico: in lui una profonda conoscenza delle partiture si accompagnava ad un finissimo intuito teatrale, rivelando un regista capace di scavare a fondo nei personaggi, senza tralasciare la massima cura dei dettagli.
Inglese di nascita, cosmopolita di carattere
Nato il 30 dicembre 1953 a Birkenhead, nei dintorni di Liverpool, Graham Vick era un uomo di teatro innovativo e visionario; anticonformista e spesso incline ad una trasgressività provocatoria, mai però fine a se stessa. Sicuramente tra i registi lirici più importanti degli ultimi decenni, il suo spirito lo portava a riletture personalissime dei grandi titoli del passato, facendone esplodere i contenuti nascosti o messi in secondo piano dall'evolvere del tempo.
Lo scopo era quello di immergere il loro plot nell'attualità, mettendo in evidenza i contrasti tra l'individualità dei personaggi e la società in cui sono immersi. Un percorso che – benché in fondo Vick rispettasse sempre la drammaturgia intima d'ogni opera, studiandone a fondo la partitura – portava talvolta a risultati poco graditi allo spettatore 'medio', che non ama troppo né la provocazione, né la destabilizzazione delle solite convenzioni.
Regie sempre immerse nell'attualità
Di che pasta fosse fatto, lo dimostrò ben presto: dopo aver studiato al Royal Northern College of Music di Manchester, il suo primo spettacolo importante fu un West Side Story messo in scena in un mulino abbandonato, collocandovi 300 giovani disoccupati. Era persuaso infatti che il teatro può e deve avere forte valenza politica e sociale, ed essere un mezzo di cambiamento se non di rivoluzione.
Una convinzione che lo portò – dopo un triennio passato come direttore di produzione alla Scottish Opera – a fondare nel 1987 la Birmingham Opera Company, istituzione che da allora coinvolge la gente del luogo nelle sue attività, che dall'interno del teatro si allargano alla comunità.
In veste di suo direttore artistico, Vick produsse molti spettacoli capaci di attirare grande attenzione, imponendosi poco alla volta come regista di eccezionale qualità chiamato infine a collaborare con i maggiori teatri mondiali.
Dal1994 al 2000 è stato direttore della produzione anche al Festival di Glyndebourne. Docente all'Università di Birmingham e di Oxford, nel 2009 è stato insignito del titolo di Commander of the Order of the British Empire; nel 2016 è stato nominato membro della Royal Philharmonic Society.
Grande amore per l'Italia
Graham Vick ha frequentato il nostro paese sin dagli anni '80, allestendo spettacoli in tutti i nostri maggiori teatri. Alla Scala, con Riccardo Muti sul podio, ha inaugurato la stagione '97-'98 con un Macbeth rimasto famoso, e nel 2001 ha chiuso le celebrazioni verdiane con Otello.
Recentemente, nel 2019, vi ha messo in scena Die tote stadt di Korngold. All’Opera di Roma aveva da poco montato la trilogia Mozart/Da Ponte, immergendola nell'attualità; per il Maggio Fiorentino ideò nel 1996 una Lucia di Lammermoor andata poi in giro per mezzo mondo; fortemente impattante anche il ciclo del Ring wagneriano consegnato dal 2013 al 2016 al Massimo di Palermo.
Al Rossini Opera Festival di Pesaro immaginò nel 1997 un grandioso Moïse et Pharaon fortemente politico, nel 2013 un Guillaume Tell che proponeva veementi immagini di sadica prevaricazione su di un popolo sottomesso.
La bohème riproposta proprio in questi giorni a Bologna – Premio Abbiati 2019 – ci propone un gruppo di svogliati studenti fuori sede, vestiti in jeans e felpa, che si amano tra muri sporchi di graffiti, spazzatura abbandonata, drogati e prostituti. Abitano uno squallido appartamento, dove Mimì muore per terra, sola, abbandonata dai suoi apatici amici. Un messaggio sociale chiarissimo, per chi vuole intendere.